Oggi è l’86° anniversario della morte di Filippo Turati.
Nato a Canzo, in provincia di Como, il 26 novembre 1857, nel 1884 conobbe a Napoli Anna Kuliscioff, allora moglie di Andrea Costa, con la quale strinse un legame ideologico e affettivo, che ebbe una certa influenza su di lui. Avvicinatosi al marxismo, nel 1891 trasformò la rivista “Cuore e critica”, creata nel 1886 da A. Ghisleri, nella “Critica sociale” e nel 1892 fu tra i fondatori del Partito dei lavoratori italiani, poi socialista. Dopo la reazione crispina e lo scioglimento d’autorità del partito (1894), nel 1896 fu eletto deputato, ma in seguito alla repressione dei moti di Milano del 1898 venne arrestato e condannato a dodici anni di carcere. Rieletto nel marzo 1899, il 4 giugno seguente fu liberato con un indulto e riprese la lotta politica, divenendo il leader della corrente riformista del partito. Antimilitarista convinto, si oppose alla guerra italo-turca (1911) e all’entrata nella Prima guerra mondiale nel 1915. Dopo il conflitto, massimo esponente dei riformisti nella lotta contro i massimalisti all’interno del partito, percepì con ritardo il pericolo fascista. Dopo la scissione di Livorno, da cui nacque il Pci (1921), messo in minoranza, fu espulso dal Psi e diede vita al Partito socialista unitario (1922). Dopo il delitto Matteotti (1924) prese parte alla secessione dell’Aventino, quindi riparò in Francia (1926), dove si adoperò per la nascita della Concentrazione antifascista (1927), per la riunificazione del partito (1930) e per una strenua attività di denuncia della dittatura mussoliniana. Morì a Parigi il 29 marzo 1932.
Non esistono francobolli italiani che commemorano Filippo Turati. Per ricordare il grande leader del socialismo italiano abbiamo pubblicato l’unico esemplare a lui dedicato, quello che le poste di San Marino hanno emesso nel 2012 per celebrare i Maestri di Libertà. Il valore da 1,74 euro mostra sullo sfondo il manifesto “Critica Sociale” con i colori della bandiera italiana e in primo piano il volto di Turati.
In quello stesso anno 1891 gli operai di Milano tennero un congresso in cui fu deciso d’indirne per l’anno seguente un altro che raccogliesse tutte le forze proletarie e rivoluzionarie. Qualcuno propose ch’esse venissero organizzate sotto la generica etichetta di Partito Operaio Socialista, ma l’idea fu violentemente osteggiata dagli anarchici, ostili come sempre al concetto di partito e più ancora alla qualifica socialista, che sempre più andava acquistando un significato suo proprio in contrapposizione con quello della vecchia Internazionale di Rimini. Turati risolse la diatriba coniando, o meglio facendo coniare da uno dei suoi. un altro nome che lo lasciava in sospeso:Partito dei Lavoratori italiani. In realtà, per il momento, la sigla gl’importava poco. Ciò che gli premeva era il congresso, unica sede in cui si potevano regolare definitivamente i conti con gli anarchici.
Rampollo di una dinastia borghese di Milano, Turati aveva debuttato in politica con un saggio sullo «Stato delinquente» che già nel titolo denunziava un orientamento ideologico in contrasto con la sua condizione sociale. Ma, anche se era approdato sulle sponde dell’anarchismo, la sua formazione non era quella di un Cafiero o di un Malatesta. Alto, barbuto, nerovestito, cappello a larghe tese, cravatta alla Lavallière, era ancora un uomo del Risorgimento, cresciuto nell’ambiente romantico e declamatorio della «scapigliatura» milanese; i suoi veri maestri erano stati Romagnosi e Cattaneo, il suo idolo Garibaldi, la sua filosofia quella positivista delle logge massoniche e dei circoli del «Libero pensiero». Insomma, di sangue apparteneva alla famiglia dei radicali alla Cavallotti, e il suo accostamento a Bakunin era soltanto il frutto di un giovanile entusiasmo umanitario allo stato più di sentimento che d’idea.
Ma a questo punto conobbe e s’innamorò di Anna Kuliscioff, che ripeté su di lui la stessa operazione di plagio compiuta anni prima su Andrea Costa. Con ciò non vogliamo dire che fu lei a determinare la sua conversione. Ma certamente l’affrettò familiarizzandolo coi testi di Marx e di Engels e facendo della sua casa il punto di raccolta di una intellighenziacosmopolita che contribuì moltissimo a slargare i provinciali orizzonti del nascente socialismo italiano. Frequentati soprattutto da esponenti della grande e matura socialdemocrazia tedesca che stava per dare scacco matto a Bismarck, quei raduni diedero avvio a molte cose: anche a uno snobismo socialista, che doveva restare caratteristico di una certa borghesia milanese, in cui non si era ammessi che dopo il battesimo di un tè della «signora Anna» (della signora, non della «compagna»).
A un simile ambiente l’apologia del «malfattore» era poco congeniale. E infatti l’avvocato Turati iniziò la sua milizia giornalistica su un periodico rivoluzionario, ma di stampo mazziniano: Cuore e Critica. Fu un periodo di rodaggio in cui, più che a esprimere idee proprie, Turati badò a fare il sismografo di quelle altrui senza riuscire a decidersi per quale socialismo optare fra i tanti – marxisti o positivisti, scientifici o evoluzionisti – che si contendevano l’esclusiva dell’etichetta. Ma nel ’91, quando Cuore e Critica decise di trasformarsi in Critica sociale affidandosi alla sua direzione, egli aveva ormai chiarito il proprio pensiero, o per meglio dire credeva di averlo chiarito. «Senza perdere quel carattere un po’ eclettico – scrisse a Costa per invitarlo a collaborare – che fu fin qui la sua forza, io intenderei di farne sempre più un organo nostro, vo’ dire del socialismo scientifico italiano.»
Sul piano operativo l’impresa gli riuscì in quanto fu su quella rivista che si formarono i quadri dirigenti del futuro partito. Ma sul piano ideologico, essa rimase impigliata in un equivoco di cui ancora si avvertono le conseguenze. Egli aveva optato per il socialismo scientifico, cioè per il socialismo di Marx, ma senza rinnegare la propria matrice positivista, convinto com’era che fra l’uno e l’altra non ci fosse contraddizione.